(11 maggio 2011)
- Non ti rivedrò mai più.
Era nata come una domanda
nella mente di Irene quella che, solo una manciata di secondi più tardi,
risuonò in tutta la stazione come una chiara e lucida previsione. Giulio
estrasse dal pacchetto le ultime due Camel. Nel farlo non riuscì a nascondere
un sorriso.
- Sai che non è così.
Le porse piano il piccolo Bic
nero, accendendolo davanti al suo naso. Come sempre. Lei, dopo che ebbe fatto,
lo ringraziò. Come sempre.
- Spostiamoci un po’.
Presero a percorrere il
binario 28 costeggiando il treno che la avrebbe portata in aeroporto. Giulio
aveva deciso di non accompagnarla. Le profonde rughe sotto gli occhi fornivano
una tangibile prova del livello di stanchezza accumulato durante una pesante
giornata lavorativa. Irene pensò che fosse meglio così.
- Le stazioni e gli aeroporti
diventano posti tristi quando qualcuno se ne va.
Lo ascoltava, ma senza
guardarlo. Poco prima, davanti ad un caffè lui le aveva parlato di come la sua
vita sarebbe cambiata, irrimediabilmente cambiata una volta partito per
l’America. Come in quel momento, anche ora gli occhi di Irene stavano
gonfiandosi, riempiendosi di minacciose lacrime pronte a sgorgare al primo
cenno di cedimento. Prese dunque a concentrarsi sulla Camel stretta tra
l’indice e il medio della mano sinistra. Il suo accorciarsi le ricordò per un
istante la miccia di una bomba, un diabolico ed inarrestabile conto alla
rovescia che la avrebbe fatta salire su quel treno carico di rimpianti e parole
non dette, forse nemmeno a malapena sussurrate. Come lo scoccare della
mezzanotte, dopo che ebbe spento il mozzicone lo speaker annunciò la partenza
del suo treno.
- Vado. Non voglio perderlo.
- Ciao Irene.
Si abbracciarono. Lo fecero
per due volte. Poi, lo sguardo di lei cadde sulle labbra di Giulio. Desiderò
baciarlo. Ma per un terzo abbraccio non v’era più tempo. Non c’era spazio per
niente. Così decise semplicemente di abbandonare la piattaforma e di prendere
posto sul vagone più vicino. Lo fece di fretta, senza voltarsi. Entrò in una
cabina e si sistemò accanto al finestrino. Distrattamente guardò fuori, e lo
trovò ancora lì, ad aspettarla, a guardarla.
- Non piangere.
- Non lo farò.
- Non ti sento e non ti vedo
nemmeno.
- Non importa.
Giulio rimase immobile
fissando il punto che avrebbe dovuto corrispondere al volto di Irene. Temeva
potesse scoppiare in lacrime. A gesti provò a farla ridere. Lei lo accontentò.
Ma lui non poteva che distinguerne uno sfocato contorno.
Il treno non accennava a
partire. Irene avrebbe voluto tornare alla porta, parlargli ancora, racimolare
qualche miserabile minuto a quell’esistenza che si stava portando via tutto
quanto, prima ancora che qualcosa, qualsiasi cosa, fosse mai realmente
accaduta. Invece restò nella sua cabina, attendendo di udire lo stridio dei
vagoni sui binari.
Poi, le venne in mente una
scena vista in un qualche film di tanti anni fa. Allora, quasi per gioco,
appoggiò il palmo della mano al finestrino. Giulio sorrise ed avvicinò la
propria, facendole combaciare. Solo in quel momento Irene si rese conto dello
spessore del vetro, a separarli. Rimasero così per un’irrisoria quantità di
piccoli istanti, buoni neanche a rendersi conto di quanta bellezza si celava
dietro a quel gesto.
Forse se ne accorgeranno più
tardi, quando saranno ognuno per sé. Il treno, ora, ha già fischiato, ed ha
iniziato la sua corsa. E mentre lentamente macina metri di binari, ormai Giulio
non è che un puntino lontano che si perde nell’opacità dello sguardo bagnato di
Irene. Un puntino che cammina nella direzione opposta alla stazione, lungo gli
stessi binari di quel treno.