(2 maggio 2012)
- Pumua mama, pumua…pole pole…pole
pole…endelea…pumua…
La invitai a respirare piano, per
aiutarla a rilassarsi. Joyce era rigida e spaventata, un fascio di nervi tesi
come le corde di un violino. Sudava molto, ma non era l’irrespirabile arsura
della savana ad accaldarla. Le contrazioni erano iniziate diversi giorni prima,
né lei né le donne del villaggio riuscivano a ricordare con esattezza quando.
Le infermiere del dispensario mi raccontarono che era stata portata con le
prime luci del mattino, e che per tutta la giornata le contrazioni si erano
sempre mantnute intense e regolari, ma con una dilatazione che procedeva
lentamente, molto lentamente. Chiesi di poter visionare il libretto della
gravidanza. Aveva eseguito una sola visita, nessuna ecografia. Non ricordava
con precisione la data dell’ultima mestruazione, ma mentre le toccavo la pancia
sentivo che quel bambino doveva essere piccolo. Pregai che non fosse prematuro.
- Pumua mama…asante. Iko uchungu sasa?
Uapi?
Finalmente riuscì a calmarsi. Mi disse
di avere molto dolore alla schiena, in basso. Ascoltai il battito del bambino
con il mio piccolo stetoscopio di legno. Era buono, ma non potevo sapere per
quanto ancora si sarebbe mantenuto tale. Le dissi che era necessario visitarla,
che ci avrei messo poco, ma che avevo bisogno di capire com’era messo il suo
bambino.
In quei mesi di esperienza africana, la
mia fiducia nei confronti delle colleghe autoctone sull’esecuzione di una
visita andava sempre più affievolendosi. Ero indecisa. Avrei preferito
risparmiare a Joyce il fastidio dell’ennesimo controllo, ma ne avevo bisogno
per decidere il da farsi. E il tempo a nostra disposizione poteva non essere
molto.
Qualche ora prima, mi trovavo nel
reparto di pediatria dell’ospedale missionario presso cui prestavo servizio.
Ero intenta a seguire i primi tentativi di allattamento delle mamme dei bambini
nati prematuri, quando ricevemmo la chiamata delle infermiere del vicino
dispensario per un problema con una donna in travaglio. Avevano bisogno del
consulto di un’esperta per un eventuale trasferimento in una struttura
provvista di sala operatoria. Ipotizzavano un arresto della dilatazione, con
conseguente necessità di taglio cesareo. Conoscendo i tempi di reazione
africani sulle urgenze, mi allarmai. Mi dissero di salire sull’ambulanza per
essere trasportata fino al dispensario.
- Quanto tempo ci metteremo?
- E’ qui vicino, dopo il fiume.
L’orologio nella mia testa iniziò a
girare, tic tac tic tac tic tac… Salutai le mamme dei piccoli e raccomandai
loro di provare ad allattarli ancora, anche in mia assenza. Promisi che sarei
tornata per la poppata successiva. In fretta e furia preparai gli strumenti
necessari. Sbraitai per avere in prestito un piccolo ambu per la rianimazione.
Lo ottenni. Sapevo che potevamo non avere molto tempo. Agivo veloce e svelta,
ma la sensazione era quella di muovermi al rallentatore. Attesi almeno
mezz’ora, l’autista non si trovava. Poi, finalmente, partimmo.
Non ho mai imparato ad abituarmi ai
ritmi africani. Il loro concetto del tempo e delle distanze è a dir poco
imparagonabile al nostro. E’ una cultura radicata alla Madre Terra, in contatto
con la natura ed il cammino del sole nel cielo. Noi “occidentali” abbiamo perso
tutto questo, immersi nella frenesia quotidiana, ritmata dal passaggio delle
auto e dai programmi televisivi trasmessi 24 ore su 24.
Pregai l’autista di non perdere tempo.
Percorsa un’infinità di chilometri di polvere, strada dissestata, con carico e
scarico di persone che chiedevano un passaggio, finalmente ero arrivata al
dispensario. Dopo due ore di viaggio.
Joyce era distesa sul letto, accanto a
me. Infilai il guanto, le chiesi il permesso, e la visitai. La situazione era
in stallo. La posizione della testa del piccolo non permetteva alla dilatazione
di proseguire. L’orologio nella mia testa riprese a girare… Tic tac tic tac tic
tac… Che fare? Sapevo che c’erano delle possibilità che quel bambino potesse
nascere lì, al dispensario. Avrei dovuto chiedere alla donna di adottare una
determinata posizione, attendere la rotazione del bambino, provare a rompere le
membrare, sperare che il liquido fosse limpido. Sperare che la dilatazione
continuasse. Sperare che il battito reggesse. Sperare che l’ossigeno non fosse
necessario. Sperare che mamma e bambino avessero ancora molte risorse ed
energie da bruciare… Ma lo stato di carenza fisica e certamente alimentare in
cui si trovava Joyce, unita alla stanchezza e allo sfinimento che le
sfiguravano il volto, il protrarsi del travaglio per chissà quanto tempo, la
mancanza di farmaci e attrezzature adatte del dispensario, mi fecero scegliere
l’altra alternativa: quel bambino sarebbe nato in ospedale. Sapevo che la
notizia non sarebbe stata accolta con felicità soprattutto dalla famiglia della
donna. Trasferirsi in una struttura con migliori possibilità di assistenza ha
un solo e preciso significato: un aumento del conto per la dimissione.
In Kenya, la sanità è a pagamento. Ogni
minuscolo strumento, dal singolo guanto alla compressa, dall’ago al set di
ferri chirurgici, viene pagato da chi riceve assistenza. Chi non è in grado di
pagare, non viene dimesso finché il conto non viene saldato. Chiaro e semplice
come il sorgere e il tramontare del sole.
Nonostante la resistenza di alcuni
parenti, Joyce salì sull’ambulanza, e ripartimmo. Le contrazioni non le davano
tregua. Stava male, e il viaggio era per lei difficile da sopportare. Viaggiare
in quelle zone aride del Kenya, con poche strade asfaltate, significa
sobbalzare violentemente per le innumerevoli buche disseminate lungo il
tragitto, respirando e mangiando polvere rossa. Nonostante le difficoltà, Joyce
mi guardava con occhi carichi di speranza. Sapeva che ero lì per aiutarla.
Giunti a destinazione, andammo in sala
parto. Joyce era più che mai stremata. Le proposi di stendersi su un letto, su
di un fianco, per riposarsi e aiutare il piccolo a girarsi nella giusta
posizione. Le rinfrescai il viso con un po’ di acqua fresca e le diedi da bere
un po’ di tè zuccherato. Iniziai a massaggiarle la schiena senza che me lo
chiedesse. Mi disse che andava bene, che potevo continuare. Quando ebbe ripreso
un po’ le forze, le chiesi di mettersi a carponi, come i gatti. Le infermiere
locali, passando, guardavano la scena con curiosità, ridendo. Solo Betty, la
più anziana di loro, comprendeva i miei gesti. Riprese le colleghe suggerendo
loro di andare a ridere altrove, lasciandoci aiutare quella mamma, e si
affiancò a me.
Passammo così un’indefinita quantità di
tempo, ma ricordo che non dovetti aspettare molto prima di sentire l’istinto di
Joyce prendere il sopravvento, e iniziare ad accompagnare la nascita del suo
bambino, spingendo con tutte le sue forze, con una naturalità che lascia senza
parole chiunque non abbia mai partorito.
Il piccolo Moses nacque senza bisogno
di ossigeno. Era piccolo, ma stava bene. Aprì subito i suoi occhietti vispi e
guardò la sua mamma che, tenendolo tra le braccia, ringraziava Dio per averli
aiutati.
Stavano bene, ed erano bellissimi
insieme. Joyce lo attaccò subito al seno. Avrei voluto stare con loro ancora un
po’ prima di tornare a casa, ma la mia giornata non era ancora finita. Dovevo
tornare in pediatria per seguire gli allattamenti dei prematuri. Così, stanca
ed accaldata, salutai Joyce e il suo bambino, dicendo che ci saremmo rivisti il
giorno successivo. Era sulla porta quando le sue parole mi giunsero come una carezza
calda in pieno inverno, quando fuori nevica e anche in casa, a volte, fa
freddo.
- Mungu akubariki, mkunga. Asante sana.
(Che Dio ti
benedica, ostetrica. Grazie mille.)